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Racconti e pensieri

Fuori dal tunnel

 

Mercoledì. Ospedale.

Visita dal nome che fa a gara in lunghezza con “supercalifragilistichespiralidoso: in pratica una esofagogastroduodenoscopia, per capire se io sia celiaco (mi sembra impossibile) o se sia troppo alta la media di sei pizze a settimana che divoro senza – per la verità – aver problemi di digestione. Fatto sta che il mio medico di base vuole capirci chiaro su come io possa essere ancora vivo e tutto sommato in salute con la mia dieta a base di carne, carboidrati, dolci, caffè, latte e sporadico ma significativo alcol; quindi “a mo’ di cavia” mi presto alle analisi: anche perché, in verità, sono curioso pure io.

Arrivo puntualissimo. Ticket pagato in anticipo. Non manca nulla. Nel mio inseparabile zaino blu c’è un raccoglitore ad anelli con tutta la mia storia clinica dagli anni ‘80 ad oggi: gloriose fratture, esami del sangue, attestati come donatore AVIS, … Trentadue anni di scartoffie riordinati meticolosamente durante una giornata d’estate, delle ormai concluse ferie estive. “Tornerà sicuramente utile al mio caso!”, mi ripetevo mentre imbustavo tutto nei fogli ad anelli trasparenti. Macché: il raccoglitore nello zaino era… e nello zaino è rimasto, chiuso su se stesso e sprofondato nella solitudine e umiliazione che solo un libro adoperato come fermaporte può capire. Nella sala d’attesa ci sono altre persone: sono tutti in coppia perché solitamente, in questo reparto, per fare questo tipo di visite viene fatta l’anestesia e successivamente ad essa non si può guidare fino al mattino seguente. Occorre perciò un accompagnatore, di routine. Non è una novità: mi avevano avvisato precedentemente; mi avevano però anche detto che si sarebbe potuto fare anche a meno di essere anestetizzati e avere piena possibilità di tornare a casa in auto autonomamente. L’idea mi va a genio: non mi piace infastidire altri, mi piace essere autonomo, affrontare la visita senza sedazione rende più divertente e accattivante il tutto come se fosse una sfida con me stesso.

Passano i minuti. Tre persone entrano prima di me. I loro accompagnatori attendono fuori. Hanno la faccia di chi è un po’ preoccupato, un po’ scazzato, un po’ fuori posto in una sala d’attesa d’ospedale. Ci guardiamo tutti, ogni tanto, come a scambiarci qualche sguardo d’intesa.

Tocca a me: entro.

“È qui con qualcuno?” chiede l’infermiera che mi accoglie: mamma di due bimbi, sei e otto anni, mi mette a mio agio parlando del quotidiano e mentre mi spiega cosa dovrò fare poco per volta il finto interesse sciama per lasciare spazio alla curiosità. I maestri, si sa, sono rari esemplari di uomo adulto e hanno vite tutte loro, in equilibrio tra lo strambo e il fantastico. Quando realizza che davvero non ho un accompagnatore, si fa più seria e capisco che qualche cosa la preoccupa: percepisco che con la mente sta pensando a tutto quello che potrebbe accadere e quali procedure dovrà seguire in caso di complicanze. Non perdo la calma, ma capisco che per il personale medico avere a che fare con gente non sedata è una grana. Ormai il dado è tratto, però: non si torna indietro.

In 15 minuti ho già finito tutto. Sono già pronto per rimettere sulle spalle il mio zaino e andarmene. Certo non è stato semplice, ma non è stata nemmeno un’impresa impossibile. Mi aspettavo di peggio. Mi avvio verso la sala d’attesa, dove dovrò attendere una quindicina di minuti per poter poi andare a fare finalmente colazione con krapfen e cappuccio.

“Non si preoccupi, signora: suo padre sta bene. Uscendo l’ho visto seduto. Si è ripreso dall’anestesia e tra poco lo lasceranno uscire”, dico ad una donna che ritrovo nella saletta, palesemente stupita di vedermi già libero di andare a spasso per i corridoi mentre il suo babbo ancora non si vede. Non è la sola, in quello stato. Sento gli sguardi dei presenti addosso e la loro apprensione è quasi palpabile: per questo parlo in modo che possano sentire tutti. “Ma hai già fatto?”, chiede lei. Rispondo di sí e che non è stato così ostico. Mi chiede alcuni dettagli e glieli fornisco. “Non è nulla di che… il tubo che ti infilano non è poi così grosso… è lungo, é vero… eh, già, ha ragione: su uno schermo comunque i dottori vedono tutto. C’è questa telecamera che trasmette attraverso il tubo. Ma non solo! Il tubo può anche pompare dentro aria! E poi per prendere dei pezzettini di intestino per fare la biopsia entrano con un sondino di metallo per un tubicino contenuto nello stesso tubo. Ho visto tutto: certo, ero steso sul lettino ma riuscivo a vedere lo schermo con la coda dell’occhio.” Io cerco di minimizzare, insomma, ma lei non cambia di molto espressione e riparte: “Ma… come mai sei già fuori?” Le rispondo che non ho fatto l’anestesia e lei sgrana gli occhi. Io non so se sentirmi idiota per non essermi fatto sedare come presumibilmente tutti i comuni mortali, oppure sentirmi una specie di eroe. “Ma… non hai sentito niente? Non fa male?”, chiede perplessa. “Beh… Certo” le dico “quando spingono il tubo si sente e da un poco fastidio, ma non tantissimo. Basta rilassarsi. Più che altro viene da espellerlo, allora si deve fare come suggeriscono le infermiere e concentrarsi per fare dei respiri profondi contando uno, due, tre…”.

“Mamma mia.. chissà che dolore, altroché…! Sei stato bravo… cioè… capisco magari chi ha certe abitudini ed è in un certo senso abituato…” si lascia scappare, lei. Non capisco: abituato? La prima cosa che mi viene in mente è l’immagine di un fachiro. Non mi viene da pensare che ai fachiri: gli unici che possano essere abituati ad infilarsi oggetti in bocca e lungo l’esofago. Stavolta sono io quello perplesso. “In che senso, scusa?” ribatto. E lì, in quel momento, ecco il fulmine a ciel sereno che squarcia le nubi di tensione di tutta la sala. “Oddio…” afferma “non hai fatto anche tu una COLONSCOPIA???”

Rido e le spiego che la mia era una gastroscopia. Risate generali. Anche per oggi ho dato: tutti sono più allegri, io compreso. Il sipario si chiude. Krapfen e cappuccino mi aspettano.